La corretta modalità di assolvimento dell’imposta di bollo sulle fatture sanitarie e la richiesta al cliente del suo eventuale recupero, sono argomenti semplici solo in apparenza e in alcuni studi dentistici anche forieri di dubbi applicativi. Quanto scriverò vale anche in caso di fatturazione elettronica: nulla cambia infatti dal punto di vista normativo. I dubbi possono dipendere anche da notizie prese da Internet, fra le quali si trovano inesattezze e perfino leggende metropolitane, vedi questo mio articolo: "L’ID della marca". Ricordo che l'imposta di bollo sulle fatture, oggi pari a due euro, è dovuta quando il loro importo supera i 77,47 €..
Le principali, fra le inesattezze internettiane, riguardano: il “chi deve pagare la marca” (rectius chi è il debitore dell’imposta nei confronti dell'Erario), e come la si deve evidenziare in fattura ai fini dell’eventuale suo addebito al cliente. Per la prima, s’incapperà in varie ricorrenze con le stesse identiche parole, ma a firma di diversi "autori" (vattelapesca chi è il primo che le ha scritte) che, in sintesi, sostengono: "il pagamento della marca è a carico del debitore, come si ricava dall’art. 1199 del Codice civile". Per la seconda, che come si dirà è strettamente collegata alla preventiva individuazione del debitore d’imposta, si troveranno fraseologie del genere: "se il bollo è posto a carico del cliente, l’importo della marca va indicato in fattura tra le operazioni escluse dall’IVA art. 15 D.P.R. n. 633/1972.".
Le due proposizioni sono sbagliate, e fiscalmente rischiose in certi casi. Vediamo perché.
1. La fattura non è una "quietanza"
L'articolo 1199 del Codice civile nulla c'entra con le fatture, esso infatti recita: "Diritto del debitore alla quietanza [1]. Il creditore che riceve il pagamento deve, a richiesta e a spese del debitore, rilasciare quietanza e farne annotazione sul titolo, se questo non è restituito al debitore. [2]....".
La "quietanza" di cui tratta il Codice civile è un apposito atto formato dal creditore che certifica l'avvenuto adempimento di un'obbligazione, di solito pecuniaria, da parte del debitore. Tale atto è formato "a richiesta" del debitore che, per capirsi, sarebbe il cliente del dentista o della società. Ci si trova insomma davanti a vicende di rapporti bilaterali, fra le due parti di un qualche contratto. La fattura è invece emessa per un obbligo di legge che ricade esclusivamente su chi effettua l'operazione, e va perciò emessa "spontaneamente" e non “su richiesta". E la si può per di più emettere anche in assenza di preventivo pagamento. La fattura perciò nulla ha a che fare con la "quietanza" richiamata dall'art. 1199. Inoltre, se nel Decreto sul bollo fatture e quietanze sono trattate distintamente all'interno dello stesso articolo, come si dirà, un motivo ci sarà pure!
2. A chi spetta pagare la marca da bollo?
Detto dell'irrilevanza dell'art. 1199 C.c., vanno ora cassati i dubbi sul fatto che il soggetto passivo di diritto dell'imposta, cioè colui che in base alla legge la deve assolvere, è solo chi emette la fattura. Mai chi la riceve. Questa granitica certezza deriva dalla lettura in combinato di tre articoli del DPR 642 del 1972 (che regola l’imposta di bollo):
- l’art. 2 comma 1, che fissa il verificarsi del presupposto dell’imposta “fin dall’origine” della formazione di documenti, cioè sulla fonte da cui il documento promana;
- l'art. 13 della parte A della tariffa, che include le fatture nei documenti soggetti all’imposta fin dall'origine (nel quale si opera anche la distinzione fra fattura e quietanza cui si è accennato);
- l'art. 23 che vieta ogni patto contrario alle disposizioni del decreto stesso anche fra le parti, ad esempio quello che stabilisse che il debitore dell'imposta non è chi forma il documento, ma chi lo riceve.
Anche sul piano della prassi interpretativa dell'Agenzia delle entrate in riferimento alle fatture sanitarie, è stato chiaramente indicato che debitore dell'imposta è chi forma il documento (risoluzioni 199 del 1995 e 444 del 2008).
Perciò, ogni ipotesi di assolvimento dell'imposta con modalità diversa da quella legale - debitore dell’imposta nei confronti dell'Erario è chi emette la fattura - non va presa in alcuna considerazione.
3. Come far pagare la marca al cliente?
La legge non offre dunque alcuna possibilità per "costringere" il cliente a sostenere la spesa per la marca. Giuridicamente, si dice che la legge non prevede la rivalsa, nemmeno in via facoltativa. Il normale comportamento da tenere è perciò il seguente: chi forma il documento assolve l’imposta apponendo la marca da lui prepagata senza inserire alcuna indicazione in fattura e nulla chiedendo a chi riceve il documento (in fattura elettronica barrando un flag al momento dell'emissione e versando in un secondo tempo, per via telematica, l’importo).
Se si vuole recuperare la spesa del bollo, a parte soluzioni extra-contabili che però non permettono a chi riceve la fattura di portarla in detrazione, occorre in primis il consenso del cliente su base non legale ma di gentlemen agreement, ed evidenziare la cosa in fattura. Si parla allora di "traslazione" (ma solo economica, non dell’obbligo giuridico di assolvere l’imposta) del peso dell'imposta: il soggetto passivo di diritto (chi deve legalmente assolvere l’imposta) rimane chi forma il documento, ma il soggetto passivo di fatto (chi ne sostiene effettivamente l'onere), diventa chi lo riceve. Si vedrà poi che è questo il motivo per cui non è corretta l’indicazione in fattura dell’importo della marca come “escluso dall’Iva art. 15 D.P.R. n. 633/1972”.
Nel corpo della fattura, insieme alle prestazioni fatturate, si aggiunge una voce tipo "recupero spesa imposta di bollo", facoltativamente indicandone l'importo, e questa aggiunta avrà la natura di un puro e semplice "aumento di prezzo", di una integrazione del corrispettivo richiesto per l'opera prestata. Il corrispettivo totale fatturato comprenderà dunque anche i due euro del bollo. In fattura elettronica, per procedere all’aggiunta della voce si dovrà aggiungere una apposita “riga di dettaglio”.
4. Perché non va fatturata la marca da bollo come "Esclusa art. 15 DPR 633"?
Venendo al secondo punto della mia "contestazione", l'articolo 15 del DPR 633, quello sull'Iva, a nulla rileva in quanto la non imponibilità ai fini dell'Iva dei due euro (perché questo è il punto) non può dipendere dalle previsioni di quella norma. Indicarlo in fattura non solo non è corretto, ma può essere anche fiscalmente rischioso, come si dirà.
L’applicazione dell’articolo 15 consente di escludere dalla base imponibile dell’Iva (ma anche da quella delle imposte sul reddito), i rimborsi di spese sostenute in nome e per conto del cliente. Perciò, si potrebbe pensare, siccome alla fine si chiedono i due euro al cliente, altro non si è fatto, acquistando prima e apponendo la marca sulla fattura poi, che anticipare una spesa in attesa del suo rimborso da parte di colui nel cui interesse è stata sostenuta. Idea che se sul piano meramente fattuale si potrebbe anche considerare realizzata, per quanto riguarda l’applicazione della norma tributaria è errata.
Infatti, l'anticipazione di somme "in nome e per conto" del cliente prevista nell'articolo 15, si realizzerebbe solo se la spesa della marca maturasse fin dall’origine nella "sfera giuridica" del cliente in quanto debitore legale dell'imposta. Cosa che, stante l'intangibilità della soggettività passiva di diritto all'imposta, di cui si è detto al punto 2, non può mai verificarsi.
5. Qual è il giusto "articolo Iva" per fatturare l'importo della marca?
Non potendo applicare l'art. 15, come spiegato, l’importo della marca indicato in fattura, in quanto operazione diversa dall'effettuazione di prestazioni sanitarie rivolte alla persona che, come è noto, sono esenti dall'Iva, sarebbe imponibile ai fini di questa ultima imposta. Insomma, su quei due euro si potrebbe perfino doverci aggiungere e versare l'Iva!
Per fortuna non è così. Si può infatti invocare la natura “accessoria” alla prestazione principale (medica) dell’aggiunta in fattura della spesa per la marca che si intende recuperare. L'art. 12 del DPR 633, riconosciuta detta accessorietà a quella spesa, dispone che il suo trattamento ai fini dell'Iva sarà il medesimo di quello dell'operazione principale, dunque l'esenzione ex nr. 18) del comma 1 dell'art. 10 del decreto Iva.
Ed è la stessa Agenzia delle entrate che, in via ufficiale, riconosce la natura accessoria dell'aggiunta in fattura della spesa per la marca. Infatti, ben argomenta la già citata risoluzione 444 del 2008 (sottolineature mie): "La stessa conclusione vale nel caso in cui l'imposta di bollo sia stata esplicitamente traslata sul cliente da parte del professionista ed evidenziata a parte nella fattura o ricevuta; come precisato dalla scrivente con la risoluzione 14 luglio 1995 n. 199/E, nulla vieta, infatti, che l'importo del tributo dovuto dal professionista in relazione al documento rilasciato al cliente sia a quest'ultimo addebitato in aggiunta al compenso professionale. Anche in tale ipotesi, l'imposta, separatamente addebitata nella fattura o ricevuta emessa, può essere considerata un costo accessorio alla prestazione professionale...".
L'articolo Iva corretto con cui fatturare il "recupero" della marca come indicato, sarà il “normale” (per le prestazioni sanitarie) nr. 10 e non dunque il nr. 15.
6. Tre implicazioni fiscali di quanto esposto
Potenziali contestazioni in caso di controllo
Se si emette fattura indicando l'importo della marca come "escluso articolo 15", tale importo, oltre che escluso dall’Iva, non rappresenterà un compenso imponibile ai fini reddituali, ma una "partita di giro" con denaro anticipato in nome e per conto del cliente rimborsato in occasione dell'emissione della fattura. Per chi emette la fattura, tali movimenti saranno perciò, giuridicamente, irrilevanti ai fini della tassazione del suo reddito. Mancando l'imponibilità come compenso, simmetricamente viene meno la deducibilità della correlativa spesa, in quanto non sostenuta perché, come indicato in fattura, rimborsata dal cliente. Qualora la spesa per marche così fatturate fosse stata comunque portata in deduzione, la si sarebbe dedotta senza averne diritto e ciò potrebbe essere contestato in caso di controllo fiscale.
Inoltre, dal momento che, per quanto finora detto, non di "partita di giro" si tratta ma di incasso imponibile, l'Amministrazione potrebbe contestare pure la mancata indicazione, fra i compensi imponibili, dei corrispettivi incassati per le marche. Doppia penalità, dunque. Magari poi si sistemano le cose, spiegando e mostrando all'Agenzia che l'indicazione dell'art. 15 del 633 era stata “messa lì” anche perché nella sua rivista online “Fisco oggi” del 22 novembre 2016 così sosteneva (peraltro in via non certo ufficiale), ma che il commercialista, sapendola lunga, ha comunque messo a tassazione i due euro incassati: ma allora forse conveniva fare le cose giuste subito.
Pagamento di fatture con bollo e ritenuta d'acconto
Quando si paga una fattura al collega che sostituisce il professionista nell'esecuzione di una prestazione, o che opera in qualità di collaboratore di un ambulatorio, il committente deve trattenere l'importo della ritenuta d'acconto come percentuale (20%) del pagato. Se nel pagamento si comprende anche l'importo della marca aggiunta dal prestatore in fattura, la ritenuta va calcolata anche su questo importo. Esemplificando, se si salda una fattura per 100 €. di prestazione con in più l'aggiunta dei 2 €. per recupero della spesa della marca, il 20% va calcolato su 102 €. e non su 100 €.. Se a saldo di quella fattura si versano al prestatore 82 €. invece che 81,6, si è omesso di versare ritenute per 0,40 €.. Poco si potrebbe pensare, vero, ma sempre di omesso versamento di ritenute si tratta.
Vero è che se chi emette la fattura mette l’importo della marca come “escluso art. 15” o perfino senza alcuna indicazione, indicando nella fattura oltre al corrispettivo per le sue prestazioni anche l’importo della ritenuta d’acconto (cosa non necessaria, che si usa fare come “cortesia” al cliente) calcolata senza tenere conto dell’importo della marca, quando si vedesse arrivare in pagamento una somma inferiore di 0,40 €. potrebbe avere da ridire. Mandategli questo articolo.
Dedurre la spesa della marca
Quando chi emette fattura la integra con l'indicazione della spesa della marca, come indicato al punto 3, "battezza" i due euro come compenso imponibile ai fini delle imposte sul reddito. Avendo evidenziato in fattura la motivazione di quell'integrazione, contemporaneamente "battezza" la spesa che ha sostenuto per acquistare la marca come inerente all'attività, perciò e in quanto tale deducibile. La gestione della marca, fatta in questo modo, diventa perciò fiscalmente, finanziariamente ed economicamente neutra. A costo zero per il prestatore, purché ovviamente percepisca dal cliente l'importo della fattura inclusivo dei due euro della marca apposta (e se non lo percepisce, che senso ha mettere l'importo della marca nella fattura?).
Se invece non si procede a "traslare" esplicitamente l'imposta di bollo sul cliente, dunque solo apponendola sul documento ma senza indicare alcunché in merito nel corpo della fattura, come pure indicato al punto 3, la spesa della marca apposta sarà deducibile ai fini del reddito ai sensi dell'art. 54 del TUIR per il dentista, e dell’art. 99 sempre del TUIR per la società. La spesa effettiva per ogni marca saranno dunque i due euro meno il risparmio fiscale.
Conclusioni
La questione della marca da bollo sulle ricevute sanitarie, pur avendo l'apparenza di un tributo "minore", è in realtà materia delicata e, vedendo varie pubblicazioni su Internet, è da migliorare la sua esplorazione anche da parte degli "addetti ai lavori". In questo articolo ho trattato solo alcune fra le principali questioni. Per sapere di più, si consideri di partecipare al corso Online - La fatturazione al paziente odontoiatrico: le regole, le domande e le risposte
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